
Sulle tracce della storia ripercorriamo le vie dell’ardesia del ‘500. Ci troviamo sulla riviera ligure di levante, nel Golfo del Tigullio. Fino ai primi anni del Novecento, grazie alla vicinanza con il mare, il bacino d’ardesia più importante era quello del Monte San Giacomo. Le cave erano talmente interessanti da meritare le visite regali: nel 1825 la regina delle Due Sicilie e nel 1833 i principi Umberto e Amedeo di Savoia.
Oggi si possono confrontare i ricordi con i resti avvolti dalla folta vegetazione. Ormai da quasi un secolo le cave sono completamente abbandonate. L’ultima fu quella di Nebbia, aperta a Cogorno nel secondo dopoguerra e chiusa a seguito di una frana che coprì l’entrata. Si scopri che gli scavi venivano fatti sotto un terreno privato, non di proprietà della cava, quindi dovette chiudere definitivamente. L’attività estrattiva primaria oggi è concentrata nell’area di Ventimiglia, ma il materiale ha una qualità diversa: non ha la spaccatura naturale e occorre tagliarla con le macchine. Copre il 70% dei fabbisogni ma è solo adatta per lastre da biliardo e per l’edilizia. La pietra a spacco oggi è solo in Fontanabuona e viene usata anche dagli artisti per scolpire pregevoli opere.
Le cave di ardesia
Nelle cave del Monte San Giacomo l’estrazione avveniva inizialmente con il metodo “a cielo”, si scavava un pozzo molto stretto, inferiore al banco di ardesia, si apriva una camera sotterranea con mine, dopodiché si facevano cadere le lastre dall’alto su un cumulo di detriti preparati per attutire il colpo. I rischi erano superiori ai vantaggi, si passò così all’estrazione “a terra” prima, e “a fosse” successivamente. Queste tecniche comportavano minori disagi per i lavoratori ma spese più gravose. Venivano illuminate con lanterne ad acetilene e i blocchi venivano ricoperti di fango e portati verso l’uscita molto lentamente. Quando erano stagionati venivano spezzati con scalpelli su cui si batteva con precisione un martello per dividere le spaccature naturali.
Le portatrici
Terminato il processo estrattivo le donne si occupavano del trasporto portando le lastre sulla testa. Scendevano di corsa dal Monte San Giacomo al mare, scalze, per non consumare le scarpe. Ogni tanto si fermavano lungo i sentieri per prender fiato appoggiando le lastre sulle “pose” costruite appositamente all’altezza della testa. Quando arrivavano in paese si rimettevano le scarpe e portavano le “ciappe” sulle rive del mare, dove venivano imbarcate. Le portatrici erano pagate in fisches che appendevano in filari sulla gonna e alla fine della giornata ricevevano il corrispettivo in denaro. L’unico accessorio di cui disponevano era “u sutestu”, un fazzoletto arrotolato a ciambella che serviva per proteggere il capo.
Le lastre più pesanti erano trasportate, sempre di corsa, da due o quattro donne che si tenevano sottobraccio. Si tramandano storie incredibili, di cadute che provocavano gravi lesioni o, a volte, anche la morte. Alcuni racconti parlano di parti avvenuti lungo le vie dell’ardesia a dimostrazione delle disumane condizioni in cui si svolgeva il lavoro. La povertà era tale che non ci si poteva permettere di perdere tempo e di solito le portatrici effettuavano un paio di carichi al giorno, sfruttando i percorsi di risalita per filare la lana e portare la colazione ai cavatori.
Quando risalivano il crinale portavano con se focacce di farina mista e verdure cotte intonando canti che riecheggiavano tra le vallate e si diffondevano tra le case, gli uliveti e i castagneti. Parte dell’ardesia veniva lavorata da artigiani locali a mano. Veniva usata l’ascia per produrre davanzali, lo scalpello e la mazzuola per realizzare gocciolatoi, mentre le lavagne di scuola venivano lisciate con il frappo.
Le vie dell’ardesia
Il nostro percorso inizia da Piazza Innocenzo IV di fronte alla Basilica dei Fieschi in località San Salvatore di Cogorno (foto copertina). La chiesa risale al 1244 e viene realizzata in stile romano-gotico con lineamenti a strisce, alternando l’ardesia con il marmo, che fanno da contorno al grande rosone centrale. Proseguiamo verso monte, ad est, e giunti sulla strada asfaltata voltiamo a destra in discesa tra i vigneti. In prossimità del parcheggio sulla sinistra un cartello turistico indica l’inizio del sentiero.
Il sentiero n° 10a è contrassegnato dal pallino rosso. Il nostro tempo di percorrenza si aggira intorno le 2 ore (solo andata) anche se il cartello indica 1.40 h. La prima parte costeggia case di villeggiatura sulla base del crinale fino a giungere a mezza costa in località Breccanecca. Qui il percorso si addentra nel bosco e prosegue ripido nella prima parte, poi si attenua molto piacevolmente accompagnando l’escursionista all’interno di un museo storico a cielo aperto.
Cosa vedere
La seconda parte del sentiero è sicuramente più interessante in quanto è stato ripristinato dal Gruppo Alpini di Cogorno. I muretti a secco accompagnano la via di ardesia attraverso aree recintate dove si possono scorgere le entrate della Cava da l’Andann-a, con la pietra viva che emerge dall’oscurità. Più avanti s’incontra la “posa da l’Andann-a” una delle pose più intatte che si possono vedere in tutto il comprensorio, mentre una seconda incisione sulla sinistra indica un’antichissima fontana dove le donne si fermavano per rinfrescarsi. Poco più in alto si nota il ritratto di una portatrice inciso nell’ardesia, realizzata dal Maestro Dallorso. Si supera un rustico curato e salendo ancora si giunge sulla strada asfaltata dove voltiamo a sinistra.
Giunti sul piazzale, crocevia di strade, notiamo a sinistra la Cappella del San Giacomo mentre noi proseguiamo in salita a destra superando la vecchia osteria Ca da Gurpe e il gruppo di ripetitori. Dopo essere entrati nuovamente nel sottobosco un cartello indica il sentiero verso destra che conduce alle cave a cielo aperto. Lo percorriamo curiosando tra le recinzioni avvolte dalla vegetazione, le superiamo, e affrontiamo una breve salita. Si arriva così sulla vetta del Monte Rocchette.
Qui il paesaggio spazia su tutto il Golfo del Tigullio fino a Portofino e oltre ripagando la fatica. Ci riposiamo quindi torniamo sui nostri passi. Per chi volesse il sentiero prosegue verso il Monte Capenardo per scendere sulle vie dell’ardesia di Santa Giulia o verso le Rocche di Sant’Anna.
Molto interessante: dobbiamo ricordare e ripercorrere la nostra storia locale sempre. Come diceva Cicerone, senza passato non c’è futuro